Menu principale:
LA RICERCA PSICOANALITICA
LA POSTURA PSICOTERAPEUTICA PSICOANALITICA NELLA SUPERVISIONE INDIVIDUALE
Daniele Pollini *
Nel mio breve intervento odierno desidero sottoporvi un' esperienza riguardante quanto avvenuto all'interno di un incontro di supervisione individuale.
Intendo così illustrare, grazie all'ascolto posturale, come la stretta correlazione fra i contenuti affettivamente ed emotivamente pregnanti tra il terapeuta e il suo paziente si rifletta, come in un gioco di specchi, tra il terapeuta e il suo supervisore.
La postura psicoterapeutica psicoanalitica come definita da G. Pieralisi nel 2012 nel suo libro " Psicoterapia psicoanalitica di gruppo e gruppi di formazione" rappresenta una metodologia che può essere utilizzata nelle più diverse situazioni relazionali. La nostra ambizione come formatori consiste nello sviluppare una attitudine all'ascolto ed alla comprensione dell'altro spendibile anche al di fuori di un contesto psicoterapeutico in senso stretto. Vorrei inoltre aggiungere che nella nostra Associazione, in tutte le sue espressioni formative comprendenti i Corsi annuali di psicoterapia psicoanalitica dell'adulto e dell'età evolutiva, il Corso quadriennale di perfezionamento, la Scuola quadriennale di psicoterapia psicoanalitica e il Gruppo di formazione permanente che avrà inizio a gennaio 2020, riteniamo che la supervisione psicoanalitica non sia una condizione in cui il supervisionato è inteso come un'anfora da riempire di nozioni e schemi psicopatologici ma è inteso come parte attiva nel processo di supervisione. Si tratta di un'esperienza di conoscenza e apprendimento reciproco tra supervisionato e supervisore.
Fatte queste necessarie premesse, intendo esporre quanto avvenuto all'interno di un singolo incontro di supervisione individuale, preceduto da circa due o tre supervisioni di gruppo dove lo stesso paziente era stato presentato e discusso
. ( La sottolineatura sul " singolo incontro di supervisione" è naturalmente voluta in quanto il dialogo degli inconsci che avviene in questo caso tra supervisionato e supervisore, come è stato descritto da Freud nella la metafora del telefono e da S. Ferenczi nei suoi scritti sulla tecnica psicoanalitica mentre J.Sandler , dal canto suo, ne ha chiarito il funzionamento attraverso i meccanismi di identificazione- disidentificazione, avviene fin dall'inizio dell'incontro).
La supervisionata è una allieva della nostra Scuola quadriennale di specializzazione in psicoterapia psicoanalitica ed io il suo supervisore.
La sua relazione terapeutica con il paziente ha avuto inizio circa un anno prima, allorchè aveva intrapreso il suo tirocinio formativo presso una struttura pubblica. Si trattava tra l'altro del suo primo paziente in psicoterapia affidatole dallo psichiatra che al contempo svolgeva la funzione di tutor. Quando ella ne parlò la prima volta in gruppo aveva espresso il desiderio di prendere in carico una persona sofferente per poterle essere d'aiuto, non nascondendosi tuttavia la presenza di timori e sentimenti di inadeguatezza legati alla inevitabile inesperienza. Apre questo primo incontro di supervisione individuale esprimendo il desiderio di parlare del paziente, che indicherò con F., che definisce il suo paziente storico. Sento fin dalle battute iniziali che il tono e il modo con il quale ella si esprime danno implicitamente scontata la mia conoscenza del paziente, le sue traversie e la storia emersa e raccontata nei precedenti incontri di supervisione di gruppo. Ora desidero precisare che, per la conoscenza che ho di me, ritengo di essere una persona dotata di una buona memoria e nonostante sia coinvolto in diverse esperienze terapeutiche e di supervisione ricordo, solitamente, con una certa precisione le persone di cui mi occupo e di cui mi si parla. Forse dovrei dire che conservo dentro di me gli aspetti e i tratti salienti che sento affettivamente significativi di queste persone.
In questa occasione e con una certa sorpresa, il nome del paziente non si accompagnava a nessuna immagine o ricordo. Non ne avevo conservato traccia dentro di me, esperienza questa che mi stava generando un certo disagio accompagnato da una discreta dose di ansietà . Tra l'altro noto come in questa circostanza ero rimasto scarsamente reattivo ( questa è stata una annotazione, come comprenderete, fatta in un secondo momento). Ho pensato infatti, successivamente, che avrei potuto levarmi da quella stato di impotenza, per me così sgradevole, semplicemente chiedendo alla allieva informazioni che mi permettessero di rievocare le peculiarità di quella persona al fine di rintracciarla nei miei ricordi e ristabilire quel sentimento di sicurezza che era venuto meno e nel quale, peraltro, avrei vissuto per buona parte della seduta.
Perché non potevo uscire subito da questo incantesimo? Perché si stava sviluppando una rispondenza di ruolo inconscia .
Mentre ero alle prese con questi stati d'animo ascoltavo la mia allieva che con animo afflitto raccontava dei suoi sentimenti di impotenza con i quali era alle prese da tempo nel lavoro con il suo paziente: " ho la netta impressione di non combinare granchè; le sedute sono tutte uguali- diceva sconsolata. E ancora: " Ho l'impressione che non rimangano tracce dentro di lui di quanto propongo nel corso delle sedute".
Proseguiva raccontando della sua difficoltà di porre un limite alla durata delle sedute che andavano costantemente oltre il tempo stabilito e con lui inizialmente concordato. Questo non solo la faceva sentire in balia ma generava rabbia verso se stessa e verso il suo paziente.
Raccontava di come avesse, per motivi organizzativi propri, modificato l'orario della seduta di tutti i pazienti che era solita vedere quel giorno, mentre con F. non le riusciva di comunicare questo cambiamento. Aveva mantenuto l'appuntamento del tardo pomeriggio e si recava in studio solo per incontrare lui. Si sentiva invasa da un crescente sentimento di costrizione dal quale avrebbe voluto liberarsi. Anche lei sembrava intrappolata in un incantesimo. Sembrava una forma di possessione.
Le riusciva impossibile trasformare in parole questa sua difficoltà, che peraltro riteneva in questo momento difficilmente esplorabile dentro di sè. Le sedute erano caratterizzate e precedute da un sentimento di attesa ansiosa, avrebbe desiderato non incontrarlo. Crescente era il sentimento di rifiuto visto che poi, iniziata la seduta, si sentiva completamente risucchiata, in uno stato di passivizzazione tale che comprometteva la nozione del tempo.
Con molta sincerità e con un certo imbarazzo raccontava di avere fatto pensieri di chiudere la terapia o di avere desiderato che questa si interrompesse.
Dal canto mio, mano a mano che la supervisione procedeva l'iniziale sensazione di disagio e di ansietà assumeva una qualità precisa e quel senso di costrizione di cui l'allieva parlava e che così accuratamente descriveva, io lo stavo vivendo in quel momento. Seguivo distrattamente quanto mi raccontava, e nonostante un certo sforzo il suo racconto non aveva alcuna presa in quel momento. Sentivo crescere anche l'irritazione e l'insofferenza, una penosa lotta che desideravo finisse, avevo forse la preoccupazione che la mia allieva si accorgesse di questo travaglio. Mi rendevo conto che non ero, in quel momento, anch'io in grado di riflettere su quanto stavo provando e su quanto stava avvenendo. Trovavo un po' di consolazione al pensiero che c'avrei riflettuto in un secondo momento. Registravo solo il desiderio di chiudere, una chiusura che avvenne dopo circa un quarto d'ora rispetto all'orario previsto.
Vi era qualcosa forse nel suo modo di comunicare le sue difficoltà che anzichè generare moti di comprensione empatica e perché no, di conseguente conforto, producevano tutt'altro (rabbia impotente). Non riuscivo ad esprimere una presenza attiva magari attraverso, se volete, banali richieste tipo: mi può spiegare…..Tuttavia sentivo che accanto a questa condizione di passivizzazione e costrizione vi era qualcos'altro che non riuscivo a cogliere chiaramente. L'incontro finisce con alcuni miei commenti che non credo dissimili da quanto avevo proposto negli incontri di gruppo e che credo esprimessero un mio riposizionamento difensivo: facevo il supervisore cercando alla fine di ripristinare una condizione attiva e "dominante". Ricordo nitidamente lo stato d'animo presente alla fine della supervisione. Un immediato e comprensibile sollievo lasciava progressivamente il posto ad una cocente delusione che non riuscivo a mettere a fuoco e che quindi mi risultava inspiegabile. Le mie associazioni nella fase subito successiva alla supervisione sono state dirette ad indagare quest'ultimo affetto. I pensieri erano relativi al fatto che l'allieva se ne era andata senza fissare un ulteriore incontro di supervisione che avrei desiderato. Pensieri questi che si accompagnavano ad una sgradevole sensazione di "uso" che stava progressivamente raggiungendo la mia coscienza e contro la quale, credo, mi opponevo e che potrei descrivere in questo modo: "sei venuta qui hai preso il mio tempo, ti sei liberata della tua angoscia e te ne sei andata. Hai soddisfatto il tuo bisogno, mentre io avrei voluto esserci non sentirmi solo preso, usato e mollato….."
Vorrei immediatamente sgomberare il campo precisando che di questa allieva ho stima, lavoro con lei piacevolmente ha modi sempre molto rispettosi ed empatici di trattare e di discutere delle persone come ho apprezzato nelle supervisioni di gruppo.
Le riflessioni che schematicamente andrò ad esporre relative a questa seduta di supervisione vorrei fossero precedute da ciò che Harold Searles, nel 1955, scriveva: " le emozioni sperimentate da un supervisore (…) forniscono spesso una valida chiarificazione dei processi (interpersonali inconsci) che normalmente caratterizzano la relazione tra supervisionato e paziente". E ancora: " I processi ( consci e inconsci ) attualmente in atto nella relazione tra paziente e terapeuta vengono spesso riflessi nella relazione tra il terapeuta e il suo supervisore".
Proprio da queste considerazioni di Searles vorrei partire visto che lo scopo primario del mio intervento di oggi vuole mostrare, attraverso la descrizione di quanto avvenuto nella seduta di supervisione, la validità delle osservazioni di Searles, soprattutto se adottiamo quell'atteggiamento di ascolto posturale, così come è stato magistralmente espresso da Pieralisi nel corso del ciclo di seminari sulla teoria della tecnica psicoanalitica che in questi cinque anni ha tenuto presso la nostra Associazione.
In particolare i seminari sul "controtransfert come sonda" e l'ascolto come è stato descritto nel seminario dal titolo evocativo " siamo in due o siamo in tre" dove ha mostrato come, sia all'interno di una seduta di psicoterapia, sia nel corso di una supervisione, non si è mai solo in due ma, dal punto di vista posturale, sempre in tre. Il nostro modo di ascoltare, che si tratti di una psicoterapia o di una supervisione è, sotto il profilo metodologico in entrambi i modelli concettuali, il medesimo, e comporta da parte sia del terapeuta, nel setting psicoterapico, sia del supervisore nell'ambito della supervisione , uno sdoppiamento con la creazione del terzo il quale ascolta non solo ciò che il paziente o il supervisionato racconta, all'interno delle rispettive relazioni, ma anche ciò che avviene nella relazione tra terapeuta e paziente e tra supervisore e supervisionato.
Vengo alle mie riflessioni.
Ritengo che la richiesta di supervisione della allieva esprimesse non solo il bisogno conscio di un aiuto, di ricevere una illuminazione dal suo supervisore, ma anche il bisogno inconscio di attualizzare nella relazione con il supervisore, che evidentemente non aveva ottenuto risonanza nel lavoro di gruppo ( che forse si era dimostrato sordo), la medesima relazione di ruolo che stava penosamente vivendo con il suo paziente. Una relazione d'uso, dove vi era una rappresentazione di un sé richiedente, avido che tende ad usare, sfruttare senza naturalmente preoccuparsi dell'altro, ed una rappresentazione di un oggetto costretto, oppresso sfruttato.
Lei inconsciamente si era identificata con questo oggetto ( se volete poi potremmo anche soffermarci su concetti quali identificazione concordante e complementare in H.Racker). Evidentemente la supervisione di gruppo non era stata sufficiente per uscire dall'impasse.
Nell'ambito della relazione di supervisione individuale si rifletteva ciò che accadeva all'interno della relazione terapeutica con il suo paziente. In questo modo, capovolgendo la relazione sé\oggetto, la allieva usciva da una condizione di impotenza e passivizzazione. Il supervisore si era fortemente identificato con la rappresentazione dell'oggetto (sfruttato e oppresso) e l'allieva con la rappresentazione del sé (richiedente, attivo). Come sappiamo fondamentale è il mantenimento di quella determinata qualità relazionale, piuttosto che incarnare un determinato ruolo.
Forse sarebbe più opportuno dire che quanto avvenuto nel corso della supervisione era una richiesta di risposta di ruolo, un tentativo di induzione, ottimamente riuscito, di una determinata risposta di ruolo da parte della mia allieva. Questa necessaria precisazione sottintende che la relazione di ruolo come penso sia in atto tra la allieva e il suo paziente per essere definita tale è qualcosa che deve essersi solidificato nel tempo e rappresentare l'abituale modo di stare insieme tra il paziente e il terapeuta.
Mi sembra valga la pena condividere, infine, una ulteriore riflessione. Ciò che mi è accaduto, grazie alla postura, implica una regressione transitoria al servizio dell'Io. Come suggerisce Arlow,: " tali regressioni sia nel terapeuta che nel supervisore, necessarie per empatizzare , servono per comunicare tra due inconsci ciò che non è verbalizzabile. "E' come se il terapeuta stesse dicendo al suo supervisore "non posso dirti a parole come è il paziente, ma posso mostrartelo e fartelo sentire".
* Associazione Centro Studi di Psicoterapia Psicoanalitica
Vicolo Poggio, 20 Mantova
Tutte le pagine copyright © Daniele Pollini 2018
Menu di sezione: