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LA RICERCA PSICOANALITICA
D'ORAZIO LELLI
FORMAZIONE E RICERCA PSICOANALITICA
SCUOLA DI PSICOTERAPIA PSICOANALITICA
DELLA COPPIA E DELLA FAMIGLIA
LA MIA RICONOSCENZA AD A.M. SANDLER NEL MIO LAVORO CLINICO:
UNA RIFLESSIONE
Elisabetta Lelli
relazione al convegno della
Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica di Ravenna,
Mantova, 13 giugno 2020:
"Il lavoro di Anne Marie Sandler: una necessaria rievocazione.
Lo sviluppo del pensiero di Anne Marie Sandler
in una rievocazione di chi ha avuto la possibilità di conoscerla personalmente"
Quasi un anno fa quando la mia carissima amica Lucia (la dottoressa Faglia)
mi ha telefonato per invitarmi a partecipare a Mantova
ad una giornata in ricordo di Anne Marie Sandler,
sono rimasta molto colpita ed emozionata per questa bella iniziativa.
Mi sono subito chiesta in che modo avrei potuto esprimere il mio ricordo di A.M. Sandler
e mi è venuto spontaneo pensare non tanto di agganciarmi a qualche suo concetto
cercando poi di svilupparlo con voi,
quanto invece di fare una riflessione su di me,
su quanto A.M. Sandler ha influenzato dentro di me il mio lavoro clinico.
Lavoro da quaranta anni con adulti, adolescenti e bambini con i loro genitori.
E' per questo che mi sono chiesta: con i bambini ed i loro genitori,
quanto A.M. Sandler mi ha aiutata?
E con gli adolescenti e gli adulti? Quanta riconoscenza le devo?
Dopo questa analisi che, ad essere sincera, non è stata breve,
sono emerse alcune riflessioni dentro di me.
A.M. Sandler ha innanzitutto contribuito a sviluppare in me
lo stimolo ad una conoscenza più approfondita di Piaget.
Alla fine degli anni '70 ho iniziato la mia formazione psicoanalitica a Milano
al "Centro Studi" di Via Ariosto.
Lessi l'articolo di A.M. Sandler del '75 "Osservazioni sul significato dell'opera di Piaget"
(e non dimentichiamo che A.M. Sandler è stata una sua collaboratrice)
e ne rimasi profondamente colpita.
Perché? Perchè mi avvicinò in modo maggiormente dinamico
agli studi sullo sviluppo del bambino secondo le osservazioni di Piaget
e ciò mi ha resa più riflessiva nel mio lavoro con i bambini ed i loro genitori.
Lavoro anche con genitori adottivi: ho seguito bambini che sono stati adottati
già grandicelli, dopo i cinque anni di vita.
Questi genitori non hanno potuto vivere con i figli quegli anni così delicati dello sviluppo.
A questo punto desidero parlarvi di una coppia di genitori adottivi
che si era presentata per problemi comportamentali del figlio
adottato cinque anni prima, all'età di sette anni.
Questo bambino aveva vissuto i suoi primissimi anni di vita con i genitori naturali,
poi per maltrattamenti subiti era stato loro tolto e trasferito in una specie di casa-famiglia
(pochi bambini e adulti, sembra, abbastanza attenti all'esigenze dei bambini ed accoglienti).
I genitori adottivi avevano da sempre notato, saltuariamente,
particolari momenti di ritiro alternati a comportamenti aggressivi.
Comprensibilmente questi genitori avevano la convinzione
che piano piano il figlio, legandosi affettivamente a loro,
avrebbe dimenticato i suoi primi anni, ripartendo da zero.
Questa è una convinzione molto spesso presente nei genitori adottivi.
I comportamenti del figlio creavano in loro sentimenti di impotenza e di inadeguatezza,
stimolando reazioni aggressive verso il figlio.
Il lavoro con questi genitori è stato molto lungo ed è stato quello di aiutarli
piano piano a "vedere" cosa si nascondeva dietro quei comportamenti,
cosa c'era dietro a quei comportamenti, comportamenti che erano protettivi
rispetto a forti sentimenti di angoscia.
Il loro figlio aveva affrontato e gestito con gli strumenti emotivi e cognitivi,
e sottolineo cognitivi, che aveva a disposizione,
esperienze drammatiche.
Perchè ho sottolineato strumenti cognitivi?
Perchè molto spesso si sente dire di un bambino piccolo "tanto non capisce…"
non è così,
capisce tutto, ma a suo modo, secondo le capacità cognitive che ha raggiunto.
Su questo ho anche lavorato con questi genitori:
il loro figlio aveva fatto esperienza non di un solo abbandono
(dai genitori naturali alla casa-famiglia, inoltre esperienze non di accudimento affettuoso,
ma di maltrattamenti dai genitori naturali),
ma anche l'esperienza di abbandono da parte degli educatori della casa-famiglia
cui si era affezionato che lo avevano consegnato ai genitori adottivi.
Gradualmente i genitori sono arrivati ad avvicinarsi a quei comportamenti del figlio,
comportamenti apparentemente incomprensibili,
prendendo loro consapevolezza che quei comportamenti erano protettivi
rispetto a violenti sentimenti di angoscia.
Si sono resi conto della vulnerabilità del figlio
di fronte, per esempio, ad eventi imprevisti che scatenavano angoscia
da cui si proteggeva ricorrendo a modalità difensive antiche
(autoisolamento o aggressività).
Hanno inoltre preso consapevolezza di un aspetto fondamentale
di questo bambino per le sue esperienze vissute,
cioè di come il figlio percepisse minaccioso per lui l'affezionarsi troppo,
che il momento in cui sollecitava e percepiva il desiderio di una maggiore vicinanza,
ciò lo portava inconsapevolmente ed in modo automatico
ad attuare dei comportamenti provocatori, aggressivi
che raggelavano la relazione.
Il dolore di questi genitori era quello di non sentirsi amati,
di sentirsi respinti, di avere un figlio ingrato che non apprezzava l'affetto che loro nutrivano per lui.
Ricordo la loro iniziale incredulità ed il loro sconcerto
quando parlai per la prima volta del conflitto del figlio
tra una parte desiderosa di ricevere affetto e vicinanza (che lui stimolava in loro)
ed una parte autonoma, distaccata.
Ricordo come i genitori rimasero colpiti da ciò,
cominciando in seguito a mettere in relazione che atteggiamenti affettuosi e dolci
nella relazione con il figlio, arrivavano poi a determinare in lui
quei comportamenti provocatori ed aggressivi che riconoscevano raggelare l'atmosfera.
Per questo bambino l'esperienza dei suoi primi anni di vita
l'ha portato a sviluppare una modalità in cui lui si rassicura
nel sentirsi non dipendente
e questa è la sua strategia difensiva per evitare il dolore dell'abbandono.
Si potrebbe dire schematicamente che nel suo mondo interno vigeva questo principio:
se io mi lego e la persona sparisce? Ho dolore,
percepisco sentimenti di dipendenza per me minacciosi.
Ma se io non mi lego e la persona sparisce? Non soffro.
Perché? Perché una vale l'altra, è sostituibile
ed io non percepisco in me sentimenti di dipendenza.
Ed allora è protettivo mantenere una relazione
in cui io possa non percepire i sentimenti di dipendenza.
Nel rapporto con il bambino ho cercato di costruire le sue relazioni interne,
il sistema difensivo che utilizzava
e queste costruzioni erano interpretazioni di aspetti significativi e rilevanti
della sua struttura psichica e del suo funzionamento mentale.
Quindi un lavoro di costruzione.
Poi con lui ed i genitori ho portato avanti un lavoro di ricostruzione
per poter ancorare nel passato la comprensione del presente,
di modo che il presente potesse essere compreso nei termini del passato.
A questo punto concludo augurandomi di essere riuscita in questo mio breve intervento,
a descrivere, almeno in parte, come lavoro,
che si tratti di adolescenti, di adulti o genitori di bambini.
Ed è a questa impostazione di lavoro che rivolgo la mia riconoscenza ad A.M. Sandler.
Mantova, 13 giugno 2020
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