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Rapporto tra il mio ruolo di terapeuta e me stesso

LA RICERCA PSICOANALITICA

D'ORAZIO LELLI
FORMAZIONE E RICERCA PSICOANALITICA
SCUOLA DI PSICOTERAPIA PSICOANALITICA
DELLA COPPIA E DELLA FAMIGLIA
Via Poggi 1 Milano
Corso Saffi 1 b Genova

RAPPORTO TRA IL MIO RUOLO DI TERAPEUTA E ME STESSO
una esperienza personale
Giovanni D'Orazio
Avevo passato la quarantina ed ero molto vicino al traguardo dei cinquant'anni quando decisi di iscrivermi ad una scuola di vela. A Genova c'è un mare meraviglioso che osservo tutto l'anno. I momenti di calma e di sole si alternano con giornate di mareggiate sotto un cielo piovoso e grigio. L' inverno del mare a volte emana un grande fascino in questa alternanza di giorni calmi con giorni agitati. E poi il vento assieme al mare è il grande protagonista di Genova. Le vele approfittano di questi due elementi cercando di cavalcare una natura ribelle. La scuola di vela aveva una barca di 12 metri e la usava per farci fare la pratica. Uscivo spesso da una settimana di lavoro che accanto alla stanchezza mi faceva sentire capace ed abile. Quando però andavo nella barca questo senso di abilità e di capacità spariva improvvisamente e veniva sostituito da una sensazione di "imbranataggine" Ritrovavo in me quella sensazione di incapacità che avevo provato negli anni adolescenziali. Mi sentivo confrontato con sentimenti di incertezza che avevo sepolto da tanti lustri. Ero uno come gli altri allievi, uno come tanti. Ero fuori dal ruolo protettivo di psicoanalista, ero un semplice scolaro come gli altri. Stare in barca a vela comportava imparare tante manovre e soprattutto un nuova postura. Questa sensazione di incapacità si accentuò quando iniziai a partecipare alle regate con la nave scuola. Ero un contrappeso e basta accanto a velisti molto bravi. Però aver sopportato il dolore di aver perso il ruolo e ritrovare una parte di me stesso ignorante mi fu di aiuto per affrontare il dolore della perdita della protezione del ruolo. La stessa sensazione l'avevo vissuta in occasione di un ricovero ospedaliero. Ora l'uscita dal ruolo era stata un mio atto volontario, altre volte, come nel ricovero ospedaliero, era stata un atto subito. Possiamo dire che avevo ritrovato attraverso quelle sensazioni di incapacità una parte di me stesso che a volte può essere messa da parte o dimenticata assumendo un ruolo in un gruppo, in una relazione, ecc. La paura, l'incertezza, l'incapacità che sentivo nel fare da contrappeso nelle regate mi riportava a me stesso, un me stesso che si può ritrovare nelle fasi regressive, o nei momenti difficili anche del nostro mestiere, cioè quando la situazione clinica appare diversa da quelle conosciute, oppure quando ci rendiamo conto che quello che sappiamo non basta perché percepiamo qualcosa di nuovo e di sconosciuto. Questa dinamicità tra il ruolo e me stesso è per me importante da tenere in un continuo aperto confronto. Penso che il processo di individuazione che sempre si svolge in un contesto familiare o in un contesto di relazione duale con il pattern o in un contesto di gruppo di lavoro o di ricerca sia reso possibile da questo continuo confronto, molte volte inconscio, tra il ruolo che uno agisce o interpreta e la consapevolezza, a volte anch'essa inconscia, di se stesso, di come uno è in quel momento. Questa dinamicità o benevola conflittualità permette di essere nel gruppo e al tempo stesso fuori del gruppo, o della relazione. Se devo "pescare" nella mia storia, ho sempre fatto parte di gruppi a volte molto diversi da loro, oppure ho partecipato a diverse relazioni. Questo comportava a volte il desiderio di rimanere nel gruppo, a volte il desiderio di uscirne. Ogni volta che cambiavo gruppo però portavo con me un'esperienza che avevo trovato in quel gruppo proprio tenendo aperto il confronto tra il ruolo e me stesso. A volte per necessità ho dovuto far parte di strutture lavorative che non condividevo in cui mi avevano imposto un ruolo che era lontano dal mio sentire. Mi ricordo che a Varese, da giovane appena laureato, entrai in un Ospedale Psichiatrico di stampo fortemente organicista. Cioè l'aspetto di organicità era usato contro la psicoanalisi vista come il diavolo. Contemporaneamente frequentavo una scuola di specialità di stampo psicoanalitico che soddisfaceva il mio interesse personale. Ma noi giovani medici fummo obbligati da un ordine di servizio del direttore di eseguire l'elettroshock. Il mio ruolo era in serio contrasto con il mio sentire, ma l'eventuale ribellione significava il licenziamento. Avevo bisogno di quel lavoro. Mi ricordai allora di una vecchia storia sindacale raccontata mio padre. Dopo l'uscita dal governo del partito comunista dopo la liberazione si contrapposero negli anni 1950 due schieramenti: quello democristiano e quello rappresentato dalla alleanza tra comunisti e socialisti. Questa contrapposizione portò a una serie di episodi discriminatori verso gli operai di sinistra. La CGIL ordinò ai suoi iscritti che cercavano lavoro nella pubblica amministrazione di disiscriversi dal suo sindacato e di iscriversi alla CISL, il sindacato democristiano. Questo faceva si che le persone venissero assunte. Poi dopo l'assunzione potevano uscire dalla CiSL ed iscriversi alla CGIL. Questo episodio faceva parte della cultura socialista e comunista della lotta partigiana, cioè il primo imperativo era il non farsi uccidere, ma rimanere vivi perché un partigiano morto non contribuiva alla causa. Questa modalità si contrappose all'atteggiamento degli anarchici che invece, in perfetta sintonia romantica, cercavano il bel gesto. Questo racconto di mio padre mi fece conservare il mio lavoro, accettai momentaneamente il ruolo che mi prescriveva il direttore dell'OPP, ma contemporaneamente mi misi a studiare tutti i testi psicoanalitici perché quelli riguardavano il mio essere che si identificava con la modalità terapeutica psicoanalitica.
Nella terapia il terapeuta assume il ruolo che il paziente necessità inconsciamente che lui assuma. Il terapeuta nel momento che partecipa assume anche la posizione di osservatore della relazione che si svolge tra lui ed il paziente ed in questo guardarsi dal di fuori si disidentifica dal ruolo e si interroga sul perché quel paziente abbia bisogno di quella relazione. Nell'interrogarsi si connette con il suo essere terapeuta, cioè contatta sua concezione della terapia, della malattia che fa parte del suo essere terapeuta. Quindi quando lavoriamo come terapeuti dobbiamo consciamente o inconsciamente riferirci alla concezione della terapia, della malattia, dello sviluppo psicologico
dell'individuo, delle sue relazioni che abbiamo costruito dentro di noi negli anni attraverso i risultati ma anche le sconfitte. Questa concezione fa parte di noi, e si può trasformare in continue modifiche della postura psicoanalitica che ci permette di cambiare per poter curare il paziente. E'un costante adattamento al comportamento del paziente. Questo ci può portare a concepire la malattia come un estremo e a volte unico tentativo di individuazione del paziente date le sue risorse interne ed il rapporto con l'ambiente. Questo tipo di concezione chiaramente si traduce in una postura tesa a comprendere il conflitto interno del paziente ( conflitto di individuazione) e la soluzione che può raggiungere e gestire.
Milano, 2 novembre 2023

pubblicato su www.doraziolelliscuolapsicoterapia.org

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